Le mucche non mangiano cemento e gli alberi non crescono fino in cielo.
Leggerete questa introduzione?
Il vostro libro può reggere il confronto
con l'aperta campagna e il bordo del mare?
WALT WITHMAN
Prima di tutto, il titolo, che agli occhi degli esperti del settore, risulta impreciso: «mucche» per i veterinari e gli allevatori non va bene, si dovrebbe dire «vacche». Licenza poetica.
E in effetti, c'è pure una certa assonanza con una citazione da GOETHE: «E' stato stabilito che gli alberi non crescono fino in cielo», utilissima per sancire il senso del limite che esiste in natura e che l'umanità sembra aver dimenticato. E' un motto contenuto in Poesia e verità, il lavoro autobiografico del poeta tedesco datato 1830, che in originale suona così: «Es ist dafür gesorgt, dass die Bäume nicht in den Himmel wachsen». E' anche diventato il titolo di un bel libro di STEPHEN JAY GOULD che parla della vita sulla terra e di come si è evoluta.
Ma dopo il titolo, da cosa nasce l'esigenza di questo libro?
Ogni mattina, percorrendo la tangenziale di Torino, da anni vedo cambiare rapidamente il territorio. Un dì compare il treppiede giallo del geometra, ed è il primo segno, come una macchia sospetta su una radiografia. Poi arrivano le reti di plastica arancione: è fatta, il cancro è ormai invasivo. Quindi è la volta delle ruspe, vedi la cotica erbosa seviziata, il lavoro di millenni asportato in pochi minuti come se non avesse alcuna importanza. Arrivano i betoncar e poi le strutture in cemento precompresso, e via, in capo a qualche mese ecco un nuovo capannone, un nuovo parcheggio, la città - o meglio una sua propaggine priva di coerenza, priva di senso estetico e di qualsivoglia valore che non sia il profitto immediato - si è espansa, ha irreversibilmente cambiato la faccia di un pezzetto di pianeta Terra.
Lo studio della climatologia, che è la mia specializzazione professionale, mi ha portato ad approfondire i complessi rapporti tra aria, suolo, acqua, flora e fauna (soprattutto quella umana). La fisica dell'atmosfera si interseca profondamente con le scelte economiche, con i comportamenti sociali, cerca di prevedere il futuro dell'ambiente guardando anche alla storia, al passato recente e remoto. E' una visione sistemica del mondo, contrapposta alla visione riduzionista.
Così, da quando ho cominciato a comprendere qualcosa (mai abbastanza...) di questa maglia fittissima di relazioni, aiutato anche dalla mia iniziale formazione in scienze agrarie, il senso di sgomento s'è fatto via via più profondo e mi fa domandare com'è che coloro che ogni giorno fanno scelte così devastanti non riescano a rendersi conto dei colpi che stanno infliggendo alla delicata trama della natura che ci sostiene e ci fornisce di che vivere. Non se ne rendono conto perché spesso sono piuttosto superficiali, insensibili ad una serie di valori universali che dovrebbero far parte del patrimonio conoscitivo ed emotivo di ogni uomo e poco propensi a studiare, a informarsi, a porsi domande. Tranne una: «Quanto mi rende?»
In questo ribollire di considerazioni, ecco che si inserisce, in un giorno di neve del dicembre 2O03, la proposta di Chiara Sasso, che partendo dalle testimonianze dei marghé della Val di Susa, mi chiede di scrivere un'introduzione. Entrambi abitiamo in Valle di Susa, un eccellente esempio del conflitto tra montagna e città, tra esigenze dello sviluppo senza limiti e limiti imposti dal territorio, capannoni che eliminano il tessuto paesaggistico, storico e agrario dell'area, linee di comunicazione stradali e ferroviarie che richiedono il loro pesante tributo, turismo di massa, giochi olimpici, baite che crollano, alberghi che sorgono. Una montagna imbastardita e confusa, bellissima e bruttissima, forse anche un laboratorio intellettuale per farne qualcosa di nuovo, di meglio. Tutto trova improvvisamente un'organica collocazione, mucche e cemento non vanno d'accordo, e da qui si può partire per tentare di andare più in là, non fermarsi solo a un'introduzione, ma integrare, impastare latte, erba, letame con calcestruzzo, sviluppo economico, limiti fisici ed entropia. Un esperimento, magari goffo, di certo imperfetto, di portare un messaggio, di gettare alcuni semi di riflessione cercando di uscire dallo schema - impenetrabile ai più - del solo discorso scientifico, e allo stesso tempo spezzare il circolo chiuso della retorica e nostalgica celebrazione del passato o dell'ambientalismo di maniera che esorta tutti ad andare in bicicletta la domenica.
Questo libro, scritto di getto in pochi mesi e quindi - almeno per quanto riguarda le mie parti - ancora acerbo e bisognoso di limature che non ho avuto il tempo di apportare - è dunque un modesto impegno civile, un tentativo minimo che va ad aggiungersi a tanti altri, per aumentare la consapevolezza della situazione rischiosa nella quale ci stiamo inoltrando e forse tentare di uscirne. Questa almeno è la visione ottimistica che andrebbe difesa; la enuncio per dovere formale, ma ci credo poco.
Sono più portato a pensare che non servirà a nulla e che i cambiamenti non saranno pilotati da scelte umane moderate e graduali, ma saranno imposti brutalmente dalle leggi fisiche che governano l'ambiente. Pazienza. Resterà una testimonianza come tante. Un modo per dire a chi verrà dopo «Almeno ce ne eravamo accorti...». «Stolti», diranno, ma è la storia. Cassandra aveva ragione, ma non l'ascoltarono. Eppure sarebbe stato così facile non fare entrare tra le mura di Troia il cavallo di legno, la storia avrebbe così assunto un'altra piega.
Ecco perché questo libro termina con «L'urlo» di Munch, che è un grido non dell'uomo, ma della Natura.
Dal libro è stato tratto uno spettacolo teatrale portato in scena da Marco Alotto nel maggio 2004
8 edizione del Valsusa Filmfest Teatro della Memoria -Transumanza-
|